Riconosco la tua voce ma tu non mi conosci – le vite degli altri

La tecnologia ci permette di condividere facilmente con le nostre persone care momenti di felicità. Siamo al parco e vogliamo immortalare una festa insieme alle nostre amiche e amici: basta registrare un video e caricarlo in un storia su Instagram oppure inoltrarlo su WhatsApp. Questo gesto fa parte della nostra natura sociale poiché ci piace condividere i nostri attimi: che si tratti di un concerto, di uno spettacolo in piazza, di una manifestazione pubblica, o di un comizio elettorale. Quando lo facciamo non pensiamo però che persone estranee (e che non vediamo) possano ascoltare ogni nostra conversazione, estraendo la traccia delle voci all’interno del video e associando un’identità. 

Uno scenario fantascientifico forse, ma nemmeno troppo: nel 2016 la Polizia italiana ha acquistato un sistema di riconoscimento vocale da usare all’interno del progetto CRAIM per il riconoscimento delle voci nei video e audio caricati sul web. Parlare di CRAIM è come parlare di una microspia indossata da ognuno di noi in grado di dare un nome alle persone con le quali parliamo e trascrivere le nostre conversazioni.

Il sistema CRAIM

Facebook, Twitter, YouTube ma anche Google, Yahoo, e Yahoo News. Questi sono solo alcuni dei social e siti da cui la polizia può raccogliere audio e video da analizzare grazie alle tecnologie acquistate dal Centro di Ricerca per l’Analisi delle Informazioni Multimediali (CRAIM) nel 2016, stando a quanto riportato dai documenti del bando pubblico.

Il sistema permette di trascrivere in modo automatico gli audio e i video presenti sul web, sfruttando algoritmi di speech-to-text multilingua (che riconoscono il testo pronunciato e lo trascrivono) e, soprattutto, di generare una impronta vocale e confrontarla con quella all’interno di un database di voci al fine di consentirne l’identificazione. Il sistema dovrà essere in grado di gestire almeno 300 ore di registrazioni giornaliere.

La polizia sembra quindi già possedere un database di voci su cui effettuare la ricerca ma non è chiaro come sia stato creato e su quali basi legali poggi questa raccolta di dati. 

Anche per questo motivo, oltre alla raccolta indiscriminata di dati biometrici, il Garante Privacy aveva dichiarato che avrebbe inviato richiesta di informazioni al Ministero dell’Interno, ma a distanza di 3 anni ancora non si hanno notizie dell’esito dell’istruttoria

È interessante notare come anche in questo caso una delle motivazioni sottostante l’utilizzo di questa tecnologia, e forse quella più rilevante secondo le forze dell’ordine, è l’utilizzo ai fini del contrasto al terrorismo o alla prevenzione della criminalità (anche organizzata). La tecnologia si inserisce ancora appieno nella narrazione contemporanea di strumento fondamentale e unico per eliminare l’errore umano e garantire la sicurezza. A quali spese si mantiene e porta avanti questa narrazione tossica non ci è dato precisamente sapere, ma certo è che già assistiamo (come in questo caso) a invasioni della nostra privacy e alla limitazione di altri diritti fondamentali. 

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Orecchie ovunque

Come ricorda EDRi, il network di associazioni europee che si occupano di diritti digitali, nel suo studio sulla sorveglianza biometrica, siamo abituati a pensare allo spazio pubblico come a strade, parchi o ospedali, ma anche centri commerciali, stadi, trasporti pubblici e altri servizi di interesse pubblico che, pur essendo gestiti da privati, sono accessibili a tutti. Ma ciò al quale non pensiamo spesso, o che non riusciamo a identificare come uno spazio pubblico dove far valere le stesse identiche regole degli esempi precedenti, è il dominio digitale. Gli spazi che occupiamo online hanno un ruolo fondamentale nella nostra quotidianità e per la determinazione e costruzione della nostra identità. Sono perciò una parte molto importante del dibattito civico, della democrazia e della partecipazione pubblica. La nostra società vive anche nei milioni di video che vengono caricati online ogni giorno.

Per queste ragioni, se e qualcuno è in grado di raccogliere indiscriminatamente, analizzare e conservare le nostre voci allora siamo di fronte a una sorveglianza biometrica su scala gigante, della quale non riusciamo nemmeno ad accorgerci. 

Quando carichiamo questi video esercitiamo, in modo più o meno cosciente, una forma di controllo: stiamo condividendo e acconsentendo alla diffusione online di contenuti che possono coinvolgere sia noi che altre persone—a volte sconosciute. È un aspetto delle nostre relazioni sociali e una consapevolezza che si è fatta strada da non molto tempo: la privacy non interessa solo noi ma anche le persone che ci stanno intorno, non solo quando parliamo per strada ma anche quando utilizziamo piattaforme di condivisione come YouTube. La privacy non è un diritto individuale ma condiviso, un diritto di tutti. Se attraverso queste le forze dell’ordine possono individuare i presenti in un determinato luogo o momento, non solo stanno mettendo in pericolo noi ma anche chiunque possa essere all’interno di quel video per sbaglio. E tutto questo viene fatto di nascosto e senza che ci sia la concreta possibilità di opporsi.